Le trasformazioni del sistema politico-istituzionale in Italia e la sostanziale continuità dello stato

 

Valeria Piergigli*

Profesora de Derecho Constitucional. Universidad de Siena. Italia.

 

 

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Dal Regno di Sardegna al Regno d’Italia: l’estensione dello Statuto albertino. – 3. Il fascismo: le modifiche costituzionali nel mantenimento formale dello Statuto. – 4. La caduta del fascismo e il periodo transitorio: il parziale ripristino delle istituzioni statutarie, la scelta della repubblica e l’elezione della assemblea costituente. – 5. La Costituzione repubblicana: gli aggiornamenti costituzionali nella continuità dell’ordinamento giuridico. – 6. L’evoluzione della Costituzione e il dibattito sulle riforme istituzionali nel permanere della identità dello stato italiano.

 

1. Nel 2011, le celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia hanno offerto alla dottrina giuridica l’occasione per tornare a riflettere su un tema, in verità, affatto nuovo e anzi ampiamente dibattuto fin dalla proclamazione, nel 1861, del Regno d’Italia: quello della continuità o meno dell’ordinamento italiano nell’evoluzione storica e nei diversi regimi – liberale, fascista, costituzionale – che si sono susseguiti e che hanno determinato cambiamenti significativi della forma di stato e di governo.

Nel 1861 al Regno d’Italia veniva esteso lo Statuto albertino, cioè la Costituzione che era stata concessa nel 1848 dal re Carlo Alberto al Regno di Sardegna; lo Statuto diventava quindi la legge fondamentale dell’Italia unita e, in quanto tale, sarebbe rimasto formalmente in vigore per circa un secolo, fino alla adozione della Costituzione repubblicana nel 1948.

Nella parziale sovrapposizione dei periodi storici – i cento anni di vigenza dello Statuto (1848-1948) ed i centocinquanta anni dell’unità d’Italia (1861-2011) – numerosi eventi hanno naturalmente interessato la società italiana (e non solo) e numerosi atti e fatti normativi hanno sensibilmente inciso sia sul funzionamento del sistema politico-costituzionale che sui rapporti tra autorità e libertà, pur nel mantenimento della “Costituzione formale”, cioé dello Statuto albertino prima e della Costituzione repubblicana poi. E anche quando, nel secondo dopoguerra, i tempi erano ormai maturi per l’introduzione di nuove regole di governo, il passaggio dall’una all’altra carta costituzionale non è avvenuto in maniera traumatica né a seguito di un moto rivoluzionario, bensì attraverso un processo graduale di transizione che è culminato nella stesura, con metodo consensuale, della Costituzione repubblicana. Persino durante il fascismo lo Statuto non venne mai formalmente cancellato, sebbene molti istituti e garanzie in esso previsti fossero stati sospesi o radicalmente modificati; del resto, la stessa instaurazione del regime fascista avvenne nel rispetto delle procedure previste e della legalità formale. In sintesi, le discontinuità costituzionali, sia formali che sostanziali, registrate dal 1848 ad oggi, e i mutamenti della forma di stato e di governo, che certamente si sono verificati in questo lungo arco di tempo, non hanno alterato la sostanziale continuità dell’ordinamento giuridico italiano. Tra la società e l’apparato organizzativo dello stato non vi sono mai state fratture tali da determinare l’estinzione dell’ordinamento preesistente e la nascita di uno stato nuovo; al contrario, tutti i cambiamenti prodotti nelle diverse fasi hanno trovato la loro legittimazione nelle regole vigenti al momento del mutamento[1].

La Costituzione del 1948, in particolare, è erede del costituzionalismo liberale, opportunamente aggiornato a seguito delle trasformazioni sociali, economiche e politiche e dell’esperienza dello stato autoritario. Le revisioni adottate nei decenni successivi, e soprattutto tra il 1999 e il 2001 con riguardo all’ordinamento regionale, non ne hanno modificato le linee essenziali; l’attuazione della Costituzione si è sviluppata attraverso fasi alterne di espansione e di attesa, mentre le prassi attuative, l’ingresso nelle organizzazioni europee, il ruolo della giurisprudenza costituzionale hanno favorito importanti adeguamenti del testo costituzionale, ma senza rinnegarne i tratti fondamentali.

Anche il dibattito sulle modalità e sui contenuti di un profondo ammodernamento delle istituzioni, dibattito avviato fin dagli anni ’70 del secolo scorso e riacceso nelle recenti legislature, si è concentrato sulla Parte II della Costituzione (forma di governo e rapporti stato-regioni), a testimonianza del generale consenso – nonostante alcune voci di segno contrario – sulla permanenza dei valori fondanti dell’ordinamento italiano che trovano consacrazione nelle disposizioni di apertura e nella Parte I della Costituzione.

 

2. Il 4 marzo 1848 il re di Sardegna Carlo Alberto promulgava lo Statuto albertino che, nel solco della tradizione liberale dell’Europa continentale, era una Costituzione ottriata, cioè concessa dal sovrano e, almeno in apparenza, immodificabile, dal momento che non soltanto non conteneva indicazioni espresse per la sua eventuale revisione, ma addirittura si autoqualificava nel preambolo “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia”. Tuttavia, l’originaria interpretazione di questa clausola come sinonimo di assoluta rigidità dello Statuto, avrebbe lasciato ben presto il posto ad una diversa lettura, suggerita da precise motivazioni politiche. La formula intendeva infatti, da un lato, limitare il potere del sovrano e allontanare lo spettro di un ritorno all’assolutismo, trovando tale tentazione un valido contrappeso nell’esistenza di un’assemblea rappresentativa che era espressione delle forze liberali dell’epoca; dall’altro lato, quella locuzione aveva altresì lo scopo di rassicurare il re sul fatto che ogni possibile evoluzione del sistema costituzionale sarebbe avvenuta col suo consenso, non potendo le camere assumere poteri costituenti senza l’appoggio del sovrano. Pertanto, eventuali modifiche della legge fondamentale avrebbero potuto realizzarsi soltanto in forma negoziale, con l’accordo del re e delle camere. Fu così che, insieme all’idea della flessibilità dello Statuto[2], ossia della sua modificabilità con legge ordinaria, si poté affermare il mito della onnipotenza della legge e del parlamento[3].

Dopo la seconda guerra di indipendenza (1859), lo Statuto veniva esteso alle regioni italiane annesse mediante plebisciti al Regno di Sardegna e il 17 marzo 1861 divenne, come accennato, la Costituzione del Regno d’Italia[4]. A conferma della saldatura tra le due fasi basti ricordare che nel 1861 il re assunse il titolo di re d’Italia ma continuò a chiamarsi Vittorio Emanuele II (e non I), così come proseguì la numerazione delle legislature del parlamento già avviata nel 1848 e dunque, con l’unificazione, la legislatura fu l’VIII (e non la I) del nuovo Regno. Lo Statuto fu l’unica Costituzione europea a non essere revocata durante il periodo risorgimentale, a conferma della volontà di Casa Savoia di rimanere fedele all’impegno di costruire uno stato liberale capace di guidare il processo di unificazione nazionale.

Dopo la prima guerra mondiale, lo Statuto venne applicato ai territori del Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Dalmazia e Fiume.

Conformemente ai principi del costituzionalismo liberale e traendo ispirazione dai sistemi istituzionali francese (Cost. 1814 come modificata nel 1830) e inglese, lo Statuto prevedeva una monarchia costituzionale pura, incentrata sul dualismo re-parlamento: il re, persona “sacra e inviolabile”, era titolare del potere esecutivo, a lui spettava la nomina e revoca dei “suoi ministri”, i quali pertanto erano fiduciari del sovrano e non formavano un autonomo gabinetto ministeriale, né lo Statuto prevedeva la figura del presidente del consiglio dei ministri[5]; la funzione legislativa era esercitata collettivamente dal re e dalle camere, costituite da un senato di nomina regia e vitalizia e da una assemblea (in origine, limitatamente) rappresentativa. Dal re emanava la giustizia che era amministrata in suo nome da giudici da lui stesso istituiti e nominati. Quanto ai diritti di libertà, lo Statuto esordiva con la proclamazione della religione cattolica come religione di stato (c.d. stato confessionale) e la previsione della mera tolleranza degli altri culti, garantiva il principio di eguaglianza e i diritti civili e politici al cui esercizio soltanto la legge poteva porre restrizioni. Gli unici diritti civili espressamente riconosciuti erano quelli alla libertà personale, di stampa, di riunione, la libertà di domicilio e il diritto di proprietà; gli ultimi due erano qualificati “inviolabili”; il diritto di voto previsto per l’elezione della camera dei deputati era sottoposto ai pesanti limiti culturali e censitari stabiliti dalla legge.

Nella formale vigenza dello Statuto, non mancarono gli aggiornamenti progressivamente realizzati sia in maniera espressa (leggi e atti equiparati) che tacita (prassi, convenzioni e consuetudini costituzionali). Così, poco dopo la sua entrata in vigore, il sistema cominciò a funzionare secondo gli schemi del governo parlamentare: pur senza pervenire alla instaurazione di un governo di gabinetto modellato sull’esperienza britannica, giacché in Italia ne mancavano all’epoca i presupposti, i ministri di nomina regia cominciarono, per via consuetudinaria, a ricercare la fiducia della camera elettiva e a governare con la collaborazione della maggioranza parlamentare. La monarchia mantenne comunque un ruolo di primo piano specialmente in materia militare e nei rapporti internazionali, come dimostrò la decisione del re di entrare in guerra nel 1915. Di fatto, l’istituzione governativa non riuscì ad imporsi né sul re né sulla camera elettiva: fino all’avvento del fascismo i governi furono deboli, le crisi di governo frequenti e quasi sempre di natura extraparlamentare[6].

La mancanza di partiti politici nazionali e la ristrettezza del suffragio erano all’origine della debolezza politica e giuridica dei governi e della disomogeneità e fragilità delle maggioranze parlamentari, tanto da far ritenere che la forma di governo fosse in realtà di tipo pseudo-parlamentare o, secondo un’altra opinione, assembleare, in considerazione della disomogeneità delle maggioranze parlamentari che di volta in volta si formavano e della presenza di tendenze consociative, agevolate da ripetute migrazioni di parlamentari da una fazione all’altra e dal ricorso allo scrutinio segreto (c.d. trasformismo parlamentare)[7]. La difficoltà per il governo di poter contare su una maggioranza parlamentare stabile e coesa con il cui appoggio attuare il proprio indirizzo politico contribuì, da un lato, ad offuscare il dogma della centralità della legge, e dall’altro lato a incoraggiare il ricorso dell’esecutivo alla decretazione con forza di legge. In assenza di qualunque previsione statutaria,  il governo, infatti, fece un uso crescente delle c.d. “ordinanze d’urgenza”, mentre dal parlamento ricevette deleghe anche estese, fino ai c.d. pieni poteri in occasione della legislazione per l’unificazione del Regno d’Italia e durante la prima guerra mondiale.

A cavallo tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la prima guerra mondiale, una serie di riforme legislative contribuiva, a Statuto invariato, alla evoluzione in senso democratico dello stato liberale e alla formazione di partiti politici non soltanto organizzati in parlamento, ma ormai radicati nella società. Tali riforme riguardavano sia la modifica del sistema elettorale da uninominale maggioritario a doppio turno (1848) a proporzionale con scrutinio di lista (1919), sia l’estensione del diritto di voto (1848, 1882, 1912, 1919) grazie al graduale abbassamento del requisito dell’età per l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo e all’eliminazione dei limiti derivanti dal reddito e dall’istruzione, in tal modo giungendosi al riconoscimento del suffragio universale maschile (1912). Fu così che, contestualmente alle trasformazioni sociali ed economiche di inizio secolo, nacquero i partiti di massa (socialista, comunista, popolare, fascista), ceti in precedenza esclusi cominciarono a partecipare alla attività politica, il parlamento e la legislazione ripresero gli spazi fino ad allora lasciati all’istituzione governativa, diritti non sanciti nello Statuto, come il diritto di associazione e di sciopero, trovarono opportuna tutela, si affermò lo stato sociale e si intensificarono gli interventi pubblici allo scopo di promuovere l’eguaglianza sostanziale dei cittadini.

La conclusione della prima guerra mondiale e le elezioni politiche del 1919, svolte col metodo proporzionale, determinarono, tuttavia, un clima di grave instabilità politica che sfociava nella nomina di Mussolini a presidente del consiglio (1922) e, di lì a poco, nella instaurazione dello stato totalitario fascista, il tutto nel formale rispetto dello Statuto e della prassi statutaria.

 

3. Il sovvertimento della forma di stato e di governo realizzato con l’avvento del fascismo al potere determinò la crisi dello stato liberale e l’arresto del processo di democratizzazione, ma non eliminò lo Statuto che rimase formalmente in vigore per tutto il ventennio (1922-1943)[8].

Il principio della separazione dei poteri fu progressivamente abbandonato e la forma di governo venne profondamente alterata mediante leggi ordinarie aventi ad oggetto l’abolizione della responsabilità dei ministri verso il parlamento, la disciplina delle attribuzioni del capo del governo e del potere normativo dell’esecutivo, la trasformazione del Gran consiglio del fascismo da organo di partito in una struttura dotata di poteri di indirizzo e consultivi, la modifica del sistema elettorale e, in seguito, la eliminazione dello stesso procedimento per l’elezione della Camera dei deputati, allorché l’assemblea rappresentativa fu sostituita con  la Camera dei fasci e delle corporazioni, formata da membri del partito unico (partito nazionale fascista) e delle corporazioni.

La legge sulla difesa dello stato e la repressione di qualunque forma di opposizione, la costituzione di corpi armati fascisti, la disciplina dei rapporti di lavoro, l’eliminazione delle autonomie locali, le limitazioni alle libertà di stampa e di associazione, il divieto di scioperi e serrate e, infine, l’adozione delle c.d. leggi razziali, in linea con la politica nazionalsocialista di Hitler cui seguiva l’entrata in guerra dell’Italia (1940) a fianco della Germania contro le potenze alleate, furono i principali interventi che segnarono, per tappe successive, il netto rifiuto delle istituzioni liberali e del pluripartitismo e connotarono un regime di stampo autoritario, incentrato nella persona del capo del governo che era anche capo del partito unico.

Se il parlamento era stato progressivamente esautorato della funzione legislativa, il re mantenne formalmente le sue prerogative che tornarono ad essere effettive con la revoca di Mussolini da capo del governo il 25 luglio 1943, dopo che il Gran consiglio del fascismo aveva deciso di destituirlo dalla carica.

 

4. Alla revoca di Mussolini seguì un periodo convulso nel quale la prosecuzione del conflitto internazionale si intrecciava con la fitta trama delle difficili questioni interne, tra le quali risaltano: l’inutile tentativo di ricostituire, nel centro-nord occupato dai tedeschi (settembre 1943), l’ordinamento fascista (Repubblica sociale italiana, 1943-1945); l’occupazione del sud-Italia da parte delle forze militari anglo-americane (luglio 1943); la ricomposizione dei partiti sciolti dal fascismo che, in seno al Comitato di liberazione nazionale, manifestarono il rifiuto di un semplice ritorno al regime statutario e l’esigenza di adottare una nuova Costituzione (settembre 1943); la crisi di legittimazione della monarchia con la nomina del principe ereditario Umberto a luogotenente del Regno (giugno 1944) e, quindi, a re d’Italia a seguito della abdicazione di Vittorio Emanuele III (maggio 1946). Nel frattempo, la fine della seconda guerra mondiale nel 1945 e la pesante sconfitta dell’Italia ponevano il paese, non soltanto di fronte alla necessità della ricostruzione economica, ma anche nella condizione di accettare un trattato di pace (Parigi, 1947) che obbligava a introdurre nella futura carta costituzionale la garanzia dei diritti fondamentali.

Più precisamente sul piano politico-istituzionale, tra il 1943 e il 1946 si apriva una fase costituzionale transitoria caratterizzata dalla soppressione delle istituzioni fasciste, dal parziale ripristino dello Statuto, dalla adozione di regole giuridiche idonee a disciplinare in via provvisoria l’ordinamento (decreto 151/1944 e decreto 98/1946) e porre le basi per l’approvazione delle nuove regole. In particolare, dopo la nomina del principe Umberto a luogotenente del Regno, venne previsto il voto femminile, fu reintrodotto il sistema elettorale proporzionale, si decise di affidare al popolo la scelta istituzionale tra monarchia e repubblica e di procedere alla elezione di una assemblea costituente per la stesura della nuova carta costituzionale.

In attesa di tale esito, comunque, rimaneva ancora formalmente in vigore lo Statuto, al quale si affiancarono le fonti normative citate[9]. Si trattò di un processo di transizione graduale che avrebbe, di lì a poco, condotto a una nuova forma di stato (di democrazia pluralista) e a una nuova forma di governo (repubblica parlamentare) senza far registrare drastiche soluzioni di continuità tra i vari momenti e passaggi.

Il 2 giugno 1946 si svolse il referendum istituzionale per la scelta tra monarchia o repubblica, contestualmente alla elezione della assemblea costituente. Il referendum sancì l’opzione repubblicana, mentre l’elezione dell’assemblea costituente, con metodo proporzionale e a suffragio universale, fece emergere gli schieramenti politici che avrebbero dato vita alla Costituzione dell’Italia repubblicana. I lavori dell’assemblea, iniziati il 25 luglio 1946, si concludevano il 27 dicembre 1947 con la promulgazione della Costituzione che entrò in vigore il 1° gennaio 1948.

 

5. Con lo Statuto albertino, la vigente Costituzione condivide lo spirito e i valori che sono quelli del costituzionalismo liberale[10]. Tuttavia, diversità importanti si riscontrano in relazione alla tecnica redazionale seguita ed alle garanzie contenute nella Costituzione stessa, tratti questi che permettono di differenziarla dalle carte liberali del XIX secolo e di inquadrarla nel costituzionalismo del secondo dopoguerra. Vi sono poi alcuni istituti innovativi, che consentono di distinguere anche sotto l’aspetto dei contenuti la Costituzione del 1948 dal precedente Statuto.

Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, la vigente Costituzione non è stata concessa dall’autorità, ma è stata discussa e votata da una apposita assemblea, democraticamente eletta.  Inoltre, diversamente dalle Costituzioni del passato, essa è rigida  e garantita: in quanto atto supremo, infatti, può essere modificata dal parlamento soltanto con un procedimento aggravato e un organo appositamente istituito (la Corte costituzionale) è incaricato, in via esclusiva, di garantire la conformità delle leggi e degli atti aventi forza di legge alla Costituzione. A conferma della continuità tra l’ordinamento precedente e quello in fase di elaborazione, merita di essere sottolineato il fatto che la Corte costituzionale si ritenne competente – come l’esperienza avrebbe largamente dimostrato – a svolgere il controllo di costituzionalità anche sulla legislazione adottata prima della entrata in vigore della Costituzione[11].

Nata dal compromesso tra le forze cattoliche, marxiste, liberali, la carta costituzionale consacra uno stato sociale di diritto e contiene un ricco catalogo di diritti dell’uomo e delle formazioni sociali, aspetto quest’ultimo che vale certamente a differenziarla dalle Costituzioni liberali ottocentesche.

Il documento si apre con dodici disposizioni (“Principi fondamentali”), cui seguono due parti: la prima riguarda “I diritti e doveri dei cittadini”; la seconda disciplina “L’ordinamento della Repubblica”. Chiude il testo costituzionale un corpo di disposizioni (Disposizioni transitorie e finali), le quali contengono previsioni a suo tempo inserite per agevolare il passaggio dal precedente al nuovo ordinamento. Tra queste, la XV disposizione transitoria proclama la conversione in legge, a far data dalla entrata in vigore della Costituzione, del citato decreto 151/1944 che era stato adottato per disciplinare l’ordinamento provvisorio dello stato. Dunque, un altro segnale della volontà di saldare tra loro le diverse fasi costituzionali, al quale si aggiungeva la legge 178/1949 che disponeva la conversione in legge dei decreti-legge approvati nel periodo successivo al 25 luglio 1943 (giorno della destituzione di Mussolini) dei quali non era stata possibile la conversione a causa degli avvenimenti verificatisi dopo tale data.

I “Principi fondamentali” consacrano i valori fondanti dello stato italiano in quanto stato democratico, il quale riconosce e promuove i diritti fondamentali della persona umana, l’eguaglianza dei cittadini, il pluralismo nelle sue diverse manifestazioni (religiose, politiche, sociali, linguistiche, culturali), il diritto al lavoro, l’unità ed indivisibilità della Repubblica, così come il decentramento amministrativo e territoriale, il ripudio della guerra, l’adesione ad organizzazioni internazionali finalizzate ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni.

La scelta di collocare il tema dei diritti e dei doveri nella prima parte del testo costituzionale è stata determinata dalla volontà di accogliere la tradizionale impostazione giusnaturalistica, secondo la quale i diritti spettano alla persona umana in quanto tale e non per concessione da parte dello stato, il quale deve, invece, adoperarsi per il loro riconoscimento e la loro garanzia. In tale ottica, i diritti e la loro regolamentazione sono stati anteposti, nella stesura della carta costituzionale, alla disciplina della organizzazione costituzionale dello stato.

La seconda parte della Costituzione ha ad oggetto l’organizzazione e le attribuzioni degli organi costituzionali (parlamento, governo, presidente della repubblica, Corte costituzionale), i principi e le garanzie in tema di funzionamento della magistratura, l’ordinamento regionale (distribuzione delle competenze e rapporti tra Stato, regioni ed enti locali).

Accanto alle maggiori innovazioni costituite dalla disciplina di un ricco catalogo di diritti fondamentali, dalla istituzione della Corte costituzionale e dalla previsione del decentramento regionale, si collocava – in linea di continuità col passato liberale e tolta la parentesi fascista – la scelta del costituente di recepire la consuetudine costituzionale che aveva prodotto l’affermazione del modello parlamentare. La introduzione della forma di governo parlamentare veniva tuttavia razionalizzata con la disciplina del meccanismo della fiducia e della sfiducia (art. 94 Cost.); il parlamento manteneva la struttura bicamerale: entrambe le camere sarebbero state elettive e dotate delle medesime funzioni sia con riguardo allo svolgimento della funzione legislativa che nei rapporti col governo (c.d. bicameralismo perfetto); nella composizione del governo, prevaleva la scelta di valorizzare la collegialità del consiglio dei ministri piuttosto che quella di rafforzare la posizione del presidente del gabinetto ministeriale; al presidente della repubblica, organo di garanzia costituzionale e politicamente irresponsabile, veniva affidato il ruolo di capo dello stato e rappresentante dell’unità nazionale, con l’attribuzione di competenze che intrecciavano i diversi poteri dello stato[12].  

In continuità con la prassi statutaria, il mantenimento del sistema elettorale proporzionale – non previsto in Costituzione, ma disciplinato con legge ordinaria – e l’assenza di primazia politica del vertice dell’esecutivo avrebbero contribuito a determinare, almeno fino all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, l’estrema frammentazione del quadro politico alla quale sarebbero conseguite la mancanza di maggioranze parlamentari stabili e capaci di esprimere governi di legislatura, nonché la formazione di litigiosi governi di coalizione, con frequente ricorso a crisi extraparlamentari e a scioglimenti anticipati delle camere[13]. Inoltre, sul funzionamento della forma di governo e sui rapporti tra maggioranza e opposizione pesava il mantenimento fino al 1971 – data della approvazione dei nuovi regolamenti parlamentari – del regolamento della camera dei deputati dell’epoca prefascista (1920-22) che era stato ripristinato e sulla cui base il senato aveva adottato il proprio nel 1948[14].

 

6. All’indomani della promulgazione della Costituzione e delle prime elezioni del parlamento repubblicano (aprile 1948), complice anche la situazione internazionale con il consolidarsi della c.d. guerra fredda, il contesto politico-istituzionale dello stato italiano registrava la frattura tra le forze politiche che avevano cooperato alla elaborazione della carta costituzionale. L’accesa conflittualità tra maggioranza e opposizione si traduceva nella netta emarginazione delle sinistre da incarichi e responsabilità di governo; il partito comunista, in particolare, venne considerato “antisistema” e costretto per diversi anni a svolgere la funzione di opposizione (c.d. conventio ad excludendum). Il clima di forte contrapposizione politica e l’immobilismo nei ruoli di governo e opposizione (c.d. democrazia bloccata) certamente non favorirono, nel primo periodo della vita repubblicana (1948-1956), l’attuazione della Costituzione.

Il “congelamento” della Costituzionale si attenuava lentamente nelle legislature successive, con l’istituzione della Corte costituzionale (1956), del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (1957) e del Consiglio superiore della magistratura (1958), mentre prendeva avvio la costruzione del mercato unico europeo con il contributo fondamentale dell’Italia (1957). Una fase ulteriore veniva inaugurata negli anni ’70 con l’attuazione dell’ordinamento regionale (1968-1970), la disciplina dell’istituto del referendum (1970), l’adozione dei nuovi regolamenti parlamentari (1971) e dello statuto dei diritti dei lavoratori (1970).

La debolezza delle coalizioni governative e il metodo consociativo caratterizzarono la dinamica dei rapporti tra maggioranza e opposizione nella prassi repubblicana degli anni ’70, finché nel decennio successivo vennero assunti interventi diretti alla razionalizzazione della forma di governo e al rafforzamento della istituzione governativa. In particolare, le riforme dei regolamenti parlamentari introducevano il controllo parlamentare di costituzionalità sui decreti legge (1981) e la regola del voto palese per l’adozione delle delibere (1988), mentre apposite leggi vennero approvate per la disciplina del governo (1988), delle autonomie locali e del procedimento amministrativo (1990).

L’XI legislatura (1992-1994) fu contrassegnata da una concatenazione di eventi che impressero una svolta nel funzionamento della forma di governo italiana tanto da indurre alcuni commentatori a parlare di un passaggio dalla “prima” ala “seconda” repubblica. Le elezioni politiche del 1992, le inchieste giudiziarie seguite allo scandalo di “Tangentopoli”, l’emergenza economica, il referendum abrogativo e la successiva modifica del sistema elettorale da proporzionale a prevalentemente maggioritario (1993) concorrevano alla implosione dell’assetto partitico e alla progressiva affermazione di una logica bipolare nella competizione politica. Questa logica si sarebbe mantenuta – a Costituzione invariata – anche con la ulteriore riforma, nuovamente in senso proporzionale ma con correttivi, della legge elettorale per la camera dei deputati e il senato (2005).

Nella ormai lunga storia dell’Italia repubblicana, numerose sono state le revisioni della carta costituzionale apportate secondo il procedimento aggravato disciplinato dall’art. 138 Cost. Tali riforme non hanno comunque mai alterato le linee essenziali e i valori fondamentali sul quale è costruito l’impianto costituzionale. Accanto agli emendamenti che hanno interessato diverse disposizioni costituzionali e alle ampie revisioni realizzate tra il 1999 e il 2001 in tema di ordinamento regionale, si devono segnalare i “tentativi” – rimasti senza esito – di operare riforme organiche della Costituzione, non sempre seguendo i meccanismi previsti per la sua revisione.

Il dibattito sulle riforme istituzionali si concretizzava già negli anni ’80 con la istituzione di una commissione parlamentare bicamerale, incaricata di studiare proposte di riforma da sottoporre alle assemblee (c.d. commissione Bozzi, 1983). La commissione, la cui relazione conclusiva non venne mai discussa, suggeriva di mantenere la forma di governo parlamentare, rafforzando gli istituti di democrazia diretta e i poteri del presidente del consiglio e differenziando le attribuzioni delle camere.

Dopo molti anni di attesa, vennero istituite altre due commissioni bicamerali che, in deroga al meccanismo previsto per la revisione costituzionale, avrebbero dovuto proporre al parlamento un progetto organico di riforma della parte seconda della Costituzione, da sottoporre obbligatoriamente a referendum confermativo del corpo elettorale. La prima di queste commissioni (c.d. commissione De Mita-Iotti, 1992), che avrebbe cessato i lavori per scioglimento anticipato delle camere, elaborava un progetto di riforma, il quale prevedeva una modifica dei rapporti tra stato e regioni e un potenziamento delle autonomie regionali, oltre alla individuazione, tramite il procedimento elettorale, del capo del governo anche in connessione con la modifica del sistema elettorale in senso maggioritario. La seconda commissione (c.d. commissione D’Alema, 1997), la cui relazione conclusiva non riuscì a superare lo scoglio del dibattito parlamentare, proponeva l’introduzione di una forma di governo semipresidenziale, la riforma federale dello stato, la differenziazione della composizione e delle funzioni delle due camere, la modifica del Consiglio superiore della magistratura, della Corte costituzionale, della pubblica amministrazione e della giustizia amministrativa.

I progetti di queste commissioni parlamentari, sebbene non siano riusciti a produrre le riforme suggerite, hanno continuato negli anni successivi ad alimentare il dibattito sulla riforma delle istituzioni, più di recente sfociato, oltre che nelle modifiche all’ordinamento regionale cui si è accennato, nel progetto di legge costituzionale (“Modifiche alla Parte II della Costituzione”) approvato dalle camere durante la XIV legislatura e respinto dal corpo elettorale nel referendum del giugno 2006. Il progetto, elaborato dalla maggioranza di centro-destra, risentiva dei mutati rapporti tra maggioranza, minoranze e governo che si erano progressivamente consolidati a seguito della svolta in senso maggioritario della democrazia italiana; più precisamente, il testo suggeriva l’introduzione di un senato federale, la modifica dei criteri di ripartizione delle competenze legislative tra lo stato e le regioni, il mantenimento della forma di governo parlamentare ma con la previsione del vincolo fiduciario tra l’esecutivo e la sola camera dei deputati, l’introduzione del bicameralismo differenziato, il rafforzamento dei poteri del primo ministro, il depotenziamento delle funzioni di garanzia del presidente della repubblica, la modifica della composizione e delle attribuzioni della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura.

Il tema della riforma della parte seconda della Costituzione proseguiva nella legislatura successiva con la predisposizione, da parte della commissione affari costituzionali della camera dei deputati, di un progetto che riuniva in un unico testo numerose proposte di revisione costituzionale (c.d. bozza Violante, 2007); su questo testo la commissione avrebbe dovuto riferire al parlamento ma la fine anticipata della legislatura, ancora una volta, ne interrompeva l’esame.

In conclusione, la storia costituzionale italiana testimonia il mantenimento della identità dello stato: nonostante i mutamenti costituzionali, talora formali (dallo Statuto alla Costituzione) ma più spesso sostanziali, abbiano inciso anche in maniera significativa sul funzionamento della forma di stato e di governo, non vi è mai stata soluzione di continuità nei diversi passaggi e nelle varie fasi che l’ordinamento giuridico statale ha attraversato, sempre nel rispetto – come si accennava in apertura – delle regole esistenti e delle procedure costituite.

E’ evidente, invece, che qualora un mutamento dovesse realizzarsi in violazione di tali regole, e dunque al di fuori e magari in dispregio del dettato costituzionale, si potrebbe ragionare di una rottura della continuità dell’ordinamento. E’ quanto potrebbe accadere, ad esempio, nel caso in cui le richieste autonomistiche strenuamente difese da oltre un ventennio dalla Lega Nord dovessero pervenire alla – invocata e periodicamente rilanciata – indipendenza del centro-nord (c.d. Padania) dal resto dell’Italia. In questa ipotesi, però, la secessione troverebbe eventualmente realizzazione in via di fatto e non di diritto, stante la solenne proclamazione costituzionale del principio di unità e indivisibilità della repubblica (art. 5 Cost.), e allora non soltanto verrebbe meno la continuità dello stato e dell’ordinamento, ma cesserebbe anche di esistere la nazione italiana come identità culturale collettiva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                   

 

 



* Professore ordinario di Diritto costituzionale nella Università di Siena (Italia).

[1] E’ questo l’orientamento prevalente tra i giuspubblicisti italiani. Per tutti, v.: S. Romano, I caratteri giuridici della formazione del regno d’Italia (1912), ora in Scritti minori, I, Milano, 1990 e V. Crisafulli, Stato, popolo, governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985; più recentemente, v.: S. Cassese, Lo stato fascista, Bologna, 2010, spec. p. 47 ss; Idem, «Fare l’Italia per costituirla poi». Le continuità dello stato, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 2, 2011, p. 305 ss.; G. de Vergottini, L’evoluzione del sistema politico istituzionale, in Rassegna parlamentare, n. 3, 2011, p. 551 ss. Di contrario avviso è, invece, U. Allegretti, Centocinquant’anni di storia costituzionale italiana, Relazione al Convegno della Associazione italiana dei costituzionalisti, Torino, ottobre 2011 (http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/sites/default/files/bandigare/Relazione%20Allegretti.pdf), che parla di cesure profonde tra le diverse epoche dello stato liberale, del regime fascista e della repubblica democratica, al punto che “le loro continuità sono secondarie rispetto alle discontinuità”. Nel dibattito storiografico, v. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia. 1848-1994, Bari, 2002; R. Martucci, Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto albertino alla Costituzione (1848-2001), Roma, 2005; C. Pavone, Alle origini della Repubblica, Torino, 1995, passim e spec. p. 116 (“… la Costituente e poi la vittoria della Repubblica spezzarono davvero … la continuità statutaria e costituzionale, intesa come continuità dei vertici dell’ordinamento giuridico. Non spezzarono invece la continuità dell’ordinamento giuridico statale nel suo complesso”).

[2] Come osserva A. Pace, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, Padova, 2002, p. 13 ss., se inizialmente prevaleva, tra gli studiosi e i politici, la tesi della non modificabilità dello Statuto nelle vie ordinarie, in seguito questo finì per essere considerato flessibile, sia giuridicamente che nella pubblica opinione. Tale esito fu reso possibile dalla combinazione di due fattori: la natura elastica delle norme statutarie che contenevano frequenti rinvii alla legge e l’introduzione, favorita dal contesto politico-culturale, di una norma consuetudinaria che consentiva la modifica dello statuto ad opera di leggi ordinarie. Sulla genesi, i contenuti, il declino dello Statuto albertino, v. G. Rebuffa, Lo Statuto albertino, Bologna, 2003.

[3] Sul punto, v. M. Fioravanti, Per una storia della legge fondamentale in Italia: dallo Statuto alla Costituzione, in M. Fioravanti (a cura di), Il valore della Costituzione, Bari, 2009, p. 5 ss.

[4] Sulla conservazione dello Statuto albertino dopo l’unificazione e sulla continuità dell’ordinamento del Regno sabaudo, v. A. Pensovecchio Li Bassi, Il biennio dell’unificazione italiana e lo Statuto albertino, in Scritti in memoria di Livio Paladin, vol. III, Napoli, 2004, p. 1606. Si veda, inoltre: R. Martucci, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II e il governo del Re, in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 3, 2011, p. 1070 ss.

[5] Soltanto con la legge Zanardelli del 1901 sarebbe stata prevista la figura del presidente del consiglio e ne sarebbero stati disciplinati i poteri.

[6] Tra il 1861 e il 1922 si ebbero ventisei presidenti del consiglio e sessanta gabinetti ministeriali.

[7] La definizione di “governo pseudo-parlamentare” è fatta risalire a Giuseppe Maranini, mentre di “governo a tendenza assembleare” con riguardo sia all’esperienza dello stato monarchico-liberale che a quella dello stato democratico-repubblicano, parla A. Barbera, Fra governo parlamentare e governo assembleare: dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana, in Quaderni costituzionali, n. 1, 2011, spec. p. 22 ss.  Sull’allontanamento dalle previsioni costituzionali relative alla forma di governo come elemento di continuità tra la prassi statuaria e quella repubblicana, v. G. Di Cosimo, Sulla continuità fra Statuto e Costituzione, in Rivista Associazione italiana dei costituzionalisti, n. 1, 2011 (http://rivistaaic.it/articolorivista/sulla-continuit%C3%A0-fra-statuto-e-costituzione).

[8] Si interroga sulla continuità o rottura tra fascismo e ordinamento statutario, L. Carlassare, La ‘rivoluzione’ fascista e l’ordinamento statutario, in Diritto pubblico, 1996, p. 43 ss.

[9] Sulla continuità formale tra stato fascista e stato repubblicano, con particolare riguardo al valore della Costituzione provvisoria, v. G.U. Rescigno, La discussione nella Assemblea costituente del 1946 intorno ai suoi poteri, ovvero del potere costituente, delle assemblee costituenti, dei processi costituenti, in Diritto pubblico, 1996, p. 1 ss. V. anche V. Onida, L’ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all’avvento della Costituzione repubblicana, Torino, 1991.

[10] Sugli elementi di continuità della Costituzione col passato, e non soltanto con quello dell’Italia liberale ma anche col passato dell’Italia fascista, v. G. Bognetti, La Costituzione repubblicana del 1948. Elementi di continuità e elementi di innovazione nel quadro della storia costituzionale italiana, in H. Woller (a cura di), La nascita di due repubbliche. Italia e Germania dal 1943 al 1955, Milano, 1989, p. 106 ss.

[11] Sul punto, v. S. Bartole, Il tempo e i tempi della Costituzione, in Scritti in onore di Franco Modugno, Napoli, 2011, spec. p. 233 ss.

[12] Per tali aspetti, v. S. Merlini, Continuità, razionalizzazioni e correzioni della forma di Governo italiana nel suo percorso storico dallo Statuto alla Costituzione repubblicana, in P. Caretti, M.C. Grisolia (a cura di), Lo stato costituzionale. La dimensione nazionale e la prospettiva internazionale. Scritti in onore di Enzo Cheli, Bologna, 2010, p. 67 ss.

 

[13] Sulla evoluzione della forma di governo italiana, anche in rapporto all’epoca statutaria, v. M. Perini, Le regole del potere: primato del parlamento o del governo?, Torino, 2009.

[14] Di “continuità nella sperimentazione”, con riguardo alla evoluzione delle assemblee parlamentari e degli istituti del diritto parlamentare, dall’epoca liberale a quella repubblicana parla R. Dickmann, Profili di “continuità” costituzionale nell’esperienza parlamentare italiana, in Federalismi.it, n. 21/2011.