Le trasformazioni del sistema
politico-istituzionale in Italia e la sostanziale continuità dello stato
Valeria
Piergigli*
Profesora
de Derecho Constitucional. Universidad de Siena. Italia.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Dal Regno di Sardegna al
Regno d’Italia: l’estensione dello Statuto albertino. – 3. Il fascismo: le
modifiche costituzionali nel mantenimento formale dello Statuto. – 4. La caduta
del fascismo e il periodo transitorio: il parziale ripristino delle istituzioni
statutarie, la scelta della repubblica e l’elezione della assemblea
costituente. – 5.
1. Nel 2011, le celebrazioni del 150° anniversario
dell’unità d’Italia hanno offerto alla dottrina giuridica l’occasione per
tornare a riflettere su un tema, in verità, affatto nuovo e anzi ampiamente
dibattuto fin dalla proclamazione, nel 1861, del Regno d’Italia: quello della
continuità o meno dell’ordinamento italiano nell’evoluzione storica e nei
diversi regimi – liberale, fascista, costituzionale – che si sono susseguiti e
che hanno determinato cambiamenti significativi della forma di stato e di
governo.
Nel 1861 al Regno d’Italia veniva esteso lo Statuto albertino,
cioè
Nella parziale sovrapposizione dei periodi storici – i cento
anni di vigenza dello Statuto (1848-1948) ed i centocinquanta anni dell’unità
d’Italia (1861-2011) – numerosi eventi hanno naturalmente interessato la
società italiana (e non solo) e numerosi atti e fatti normativi hanno
sensibilmente inciso sia sul funzionamento del sistema politico-costituzionale
che sui rapporti tra autorità e libertà, pur nel mantenimento della “Costituzione
formale”, cioé dello Statuto albertino prima e della Costituzione repubblicana
poi. E anche quando, nel secondo dopoguerra, i tempi erano ormai maturi per
l’introduzione di nuove regole di governo, il passaggio dall’una all’altra
carta costituzionale non è avvenuto in maniera traumatica né a seguito di un
moto rivoluzionario, bensì attraverso un processo graduale di transizione che è
culminato nella stesura, con metodo consensuale, della Costituzione
repubblicana. Persino durante il fascismo lo Statuto non venne mai formalmente
cancellato, sebbene molti istituti e garanzie in esso previsti fossero stati
sospesi o radicalmente modificati; del resto, la stessa instaurazione del
regime fascista avvenne nel rispetto delle procedure previste e della legalità
formale. In sintesi, le discontinuità
costituzionali, sia formali che sostanziali, registrate dal 1848 ad oggi, e
i mutamenti della forma di stato e di governo, che certamente si sono
verificati in questo lungo arco di tempo, non
hanno alterato la sostanziale continuità dell’ordinamento giuridico italiano.
Tra la società e l’apparato organizzativo dello stato non vi sono mai state
fratture tali da determinare l’estinzione dell’ordinamento preesistente e la
nascita di uno stato nuovo; al contrario, tutti i cambiamenti prodotti nelle
diverse fasi hanno trovato la loro legittimazione nelle regole vigenti al
momento del mutamento[1].
Anche il dibattito sulle modalità e sui contenuti di un
profondo ammodernamento delle istituzioni, dibattito avviato fin dagli anni ’70
del secolo scorso e riacceso nelle recenti legislature, si è concentrato sulla
Parte II della Costituzione (forma di governo e rapporti stato-regioni), a testimonianza
del generale consenso – nonostante alcune voci di segno contrario – sulla
permanenza dei valori fondanti dell’ordinamento italiano che trovano
consacrazione nelle disposizioni di apertura e nella Parte I della
Costituzione.
2. Il 4 marzo 1848 il re di Sardegna Carlo Alberto
promulgava lo Statuto albertino che, nel solco della tradizione liberale
dell’Europa continentale, era una Costituzione ottriata, cioè concessa dal
sovrano e, almeno in apparenza, immodificabile, dal momento che non soltanto
non conteneva indicazioni espresse per la sua eventuale revisione, ma addirittura
si autoqualificava nel preambolo “legge
fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia”. Tuttavia,
l’originaria interpretazione di questa clausola come sinonimo di assoluta
rigidità dello Statuto, avrebbe lasciato ben presto il posto ad una diversa lettura,
suggerita da precise motivazioni politiche. La formula intendeva infatti, da un
lato, limitare il potere del sovrano e allontanare lo spettro di un ritorno
all’assolutismo, trovando tale tentazione un valido contrappeso nell’esistenza
di un’assemblea rappresentativa che era espressione delle forze liberali
dell’epoca; dall’altro lato, quella locuzione aveva altresì lo scopo di
rassicurare il re sul fatto che ogni possibile evoluzione del sistema
costituzionale sarebbe avvenuta col suo consenso, non potendo le camere
assumere poteri costituenti senza l’appoggio del sovrano. Pertanto, eventuali
modifiche della legge fondamentale avrebbero potuto realizzarsi soltanto in
forma negoziale, con l’accordo del re e delle camere. Fu così che, insieme all’idea
della flessibilità dello Statuto[2],
ossia della sua modificabilità con legge ordinaria, si poté affermare il mito
della onnipotenza della legge e del parlamento[3].
Dopo la seconda guerra di indipendenza (1859), lo Statuto
veniva esteso alle regioni italiane annesse mediante plebisciti al Regno di
Sardegna e il 17 marzo 1861 divenne, come accennato,
Dopo la prima guerra mondiale, lo Statuto venne applicato
ai territori del Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Dalmazia e Fiume.
Conformemente ai principi del costituzionalismo liberale e
traendo ispirazione dai sistemi istituzionali francese (Cost. 1814 come
modificata nel 1830) e inglese, lo Statuto prevedeva una monarchia
costituzionale pura, incentrata sul dualismo re-parlamento: il re, persona
“sacra e inviolabile”, era titolare del potere esecutivo, a lui spettava la
nomina e revoca dei “suoi ministri”, i quali pertanto erano fiduciari del
sovrano e non formavano un autonomo gabinetto ministeriale, né lo Statuto
prevedeva la figura del presidente del consiglio dei ministri[5];
la funzione legislativa era esercitata collettivamente dal re e dalle camere,
costituite da un senato di nomina regia e vitalizia e da una assemblea (in
origine, limitatamente) rappresentativa. Dal re emanava la giustizia che era
amministrata in suo nome da giudici da lui stesso istituiti e nominati. Quanto
ai diritti di libertà, lo Statuto esordiva con la proclamazione della religione
cattolica come religione di stato (c.d. stato confessionale) e la previsione
della mera tolleranza degli altri culti, garantiva il principio di eguaglianza
e i diritti civili e politici al cui esercizio soltanto la legge poteva porre
restrizioni. Gli unici diritti civili espressamente riconosciuti erano quelli
alla libertà personale, di stampa, di riunione, la libertà di domicilio e il
diritto di proprietà; gli ultimi due erano qualificati “inviolabili”; il
diritto di voto previsto per l’elezione della camera dei deputati era
sottoposto ai pesanti limiti culturali e censitari stabiliti dalla legge.
Nella formale vigenza dello Statuto, non mancarono gli
aggiornamenti progressivamente realizzati sia in maniera espressa (leggi e atti
equiparati) che tacita (prassi, convenzioni e consuetudini costituzionali). Così,
poco dopo la sua entrata in vigore, il sistema cominciò a funzionare secondo
gli schemi del governo parlamentare: pur senza pervenire alla instaurazione di
un governo di gabinetto modellato sull’esperienza britannica, giacché in Italia
ne mancavano all’epoca i presupposti, i ministri di nomina regia cominciarono,
per via consuetudinaria, a ricercare la fiducia della camera elettiva e a
governare con la collaborazione della maggioranza parlamentare. La monarchia
mantenne comunque un ruolo di primo piano specialmente in materia militare e
nei rapporti internazionali, come dimostrò la decisione del re di entrare in
guerra nel 1915. Di fatto, l’istituzione governativa non riuscì ad imporsi né sul
re né sulla camera elettiva: fino all’avvento del fascismo i governi furono
deboli, le crisi di governo frequenti e quasi sempre di natura
extraparlamentare[6].
La mancanza di partiti politici nazionali e la
ristrettezza del suffragio erano all’origine della debolezza politica e
giuridica dei governi e della disomogeneità e fragilità delle maggioranze
parlamentari, tanto da far ritenere che la forma di governo fosse in realtà di
tipo pseudo-parlamentare o, secondo un’altra opinione, assembleare, in
considerazione della disomogeneità delle maggioranze parlamentari che di volta
in volta si formavano e della presenza di tendenze consociative, agevolate da
ripetute migrazioni di parlamentari da una fazione all’altra e dal ricorso allo
scrutinio segreto (c.d. trasformismo parlamentare)[7].
La difficoltà per il governo di poter contare su una maggioranza parlamentare
stabile e coesa con il cui appoggio attuare il proprio indirizzo politico contribuì,
da un lato, ad offuscare il dogma della centralità della legge, e dall’altro
lato a incoraggiare il ricorso dell’esecutivo alla decretazione con forza di
legge. In assenza di qualunque previsione statutaria, il governo, infatti, fece un uso crescente
delle c.d. “ordinanze d’urgenza”, mentre dal parlamento ricevette deleghe anche
estese, fino ai c.d. pieni poteri in occasione della legislazione per
l’unificazione del Regno d’Italia e durante la prima guerra mondiale.
A cavallo tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la
prima guerra mondiale, una serie di riforme legislative contribuiva, a Statuto
invariato, alla evoluzione in senso democratico dello stato liberale e alla
formazione di partiti politici non soltanto organizzati in parlamento, ma ormai
radicati nella società. Tali riforme riguardavano sia la modifica del sistema
elettorale da uninominale maggioritario a doppio turno (1848) a proporzionale
con scrutinio di lista (1919), sia l’estensione del diritto di voto (1848,
1882, 1912, 1919) grazie al graduale abbassamento del requisito dell’età per l’esercizio
dell’elettorato attivo e passivo e all’eliminazione dei limiti derivanti dal
reddito e dall’istruzione, in tal modo giungendosi al riconoscimento del
suffragio universale maschile (1912). Fu così che, contestualmente alle
trasformazioni sociali ed economiche di inizio secolo, nacquero i partiti di
massa (socialista, comunista, popolare, fascista), ceti in precedenza esclusi
cominciarono a partecipare alla attività politica, il parlamento e la
legislazione ripresero gli spazi fino ad allora lasciati all’istituzione
governativa, diritti non sanciti nello Statuto, come il diritto di associazione
e di sciopero, trovarono opportuna tutela, si affermò lo stato sociale e si
intensificarono gli interventi pubblici allo scopo di promuovere l’eguaglianza
sostanziale dei cittadini.
La conclusione della prima guerra mondiale e le elezioni
politiche del 1919, svolte col metodo proporzionale, determinarono, tuttavia,
un clima di grave instabilità politica che sfociava nella nomina di Mussolini a
presidente del consiglio (1922) e, di lì a poco, nella instaurazione dello
stato totalitario fascista, il tutto nel formale rispetto dello Statuto e della
prassi statutaria.
3. Il sovvertimento della forma di stato e di governo
realizzato con l’avvento del fascismo al potere determinò la crisi dello stato
liberale e l’arresto del processo di democratizzazione, ma non eliminò lo
Statuto che rimase formalmente in vigore per tutto il ventennio (1922-1943)[8].
Il principio della separazione dei poteri fu
progressivamente abbandonato e la forma di governo venne profondamente alterata
mediante leggi ordinarie aventi ad oggetto l’abolizione della responsabilità
dei ministri verso il parlamento, la disciplina delle attribuzioni del capo del
governo e del potere normativo dell’esecutivo, la trasformazione del Gran
consiglio del fascismo da organo di partito in una struttura dotata di poteri
di indirizzo e consultivi, la modifica del sistema elettorale e, in seguito, la
eliminazione dello stesso procedimento per l’elezione della Camera dei deputati,
allorché l’assemblea rappresentativa fu sostituita con
La legge sulla difesa dello stato e la repressione di qualunque
forma di opposizione, la costituzione di corpi armati fascisti, la disciplina
dei rapporti di lavoro, l’eliminazione delle autonomie locali, le limitazioni
alle libertà di stampa e di associazione, il divieto di scioperi e serrate e,
infine, l’adozione delle c.d. leggi razziali, in linea con la politica
nazionalsocialista di Hitler cui seguiva l’entrata in guerra dell’Italia (1940)
a fianco della Germania contro le potenze alleate, furono i principali
interventi che segnarono, per tappe successive, il netto rifiuto delle
istituzioni liberali e del pluripartitismo e connotarono un regime di stampo
autoritario, incentrato nella persona del capo del governo che era anche capo
del partito unico.
Se il parlamento era stato progressivamente esautorato della
funzione legislativa, il re mantenne formalmente le sue prerogative che
tornarono ad essere effettive con la revoca di Mussolini da capo del governo il
25 luglio 1943, dopo che il Gran consiglio del fascismo aveva deciso di
destituirlo dalla carica.
4. Alla revoca di Mussolini seguì un periodo convulso nel
quale la prosecuzione del conflitto internazionale si intrecciava con la fitta
trama delle difficili questioni interne, tra le quali risaltano: l’inutile
tentativo di ricostituire, nel centro-nord occupato dai tedeschi (settembre
1943), l’ordinamento fascista (Repubblica sociale italiana, 1943-1945); l’occupazione
del sud-Italia da parte delle forze militari anglo-americane (luglio 1943); la
ricomposizione dei partiti sciolti dal fascismo che, in seno al Comitato di
liberazione nazionale, manifestarono il rifiuto di un semplice ritorno al
regime statutario e l’esigenza di adottare una nuova Costituzione (settembre
1943); la crisi di legittimazione della monarchia con la nomina del principe ereditario
Umberto a luogotenente del Regno (giugno 1944) e, quindi, a re d’Italia a
seguito della abdicazione di Vittorio Emanuele III (maggio 1946). Nel
frattempo, la fine della seconda guerra mondiale nel 1945 e la pesante sconfitta
dell’Italia ponevano il paese, non soltanto di fronte alla necessità della
ricostruzione economica, ma anche nella condizione di accettare un trattato di
pace (Parigi, 1947) che obbligava a introdurre nella futura carta
costituzionale la garanzia dei diritti fondamentali.
Più precisamente sul piano politico-istituzionale, tra il
1943 e il 1946 si apriva una fase costituzionale transitoria caratterizzata dalla
soppressione delle istituzioni fasciste, dal parziale ripristino dello Statuto,
dalla adozione di regole giuridiche idonee a disciplinare in via provvisoria
l’ordinamento (decreto 151/1944 e decreto 98/1946) e porre le basi per
l’approvazione delle nuove regole. In particolare, dopo la nomina del principe
Umberto a luogotenente del Regno, venne previsto il voto femminile, fu reintrodotto
il sistema elettorale proporzionale, si decise di affidare al popolo la scelta
istituzionale tra monarchia e repubblica e di procedere alla elezione di una
assemblea costituente per la stesura della nuova carta costituzionale.
In attesa di tale esito, comunque, rimaneva ancora formalmente
in vigore lo Statuto, al quale si affiancarono le fonti normative citate[9].
Si trattò di un processo di transizione graduale che avrebbe, di lì a poco,
condotto a una nuova forma di stato (di democrazia pluralista) e a una nuova
forma di governo (repubblica parlamentare) senza far registrare drastiche
soluzioni di continuità tra i vari momenti e passaggi.
Il 2 giugno 1946 si svolse il referendum istituzionale per
la scelta tra monarchia o repubblica, contestualmente alla elezione della
assemblea costituente. Il referendum sancì l’opzione repubblicana, mentre
l’elezione dell’assemblea costituente, con metodo proporzionale e a suffragio
universale, fece emergere gli schieramenti politici che avrebbero dato vita alla
Costituzione dell’Italia repubblicana. I lavori dell’assemblea, iniziati il 25
luglio 1946, si concludevano il 27 dicembre 1947 con la promulgazione della
Costituzione che entrò in vigore il 1° gennaio 1948.
5. Con lo Statuto albertino, la vigente Costituzione
condivide lo spirito e i valori che sono quelli del costituzionalismo liberale[10].
Tuttavia, diversità importanti si riscontrano in relazione alla tecnica
redazionale seguita ed alle garanzie contenute nella Costituzione stessa,
tratti questi che permettono di differenziarla dalle carte liberali del XIX
secolo e di inquadrarla nel costituzionalismo del secondo dopoguerra. Vi sono
poi alcuni istituti innovativi, che consentono di distinguere anche sotto
l’aspetto dei contenuti
Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, la vigente
Costituzione non è stata concessa dall’autorità, ma è stata discussa e votata da una apposita
assemblea, democraticamente eletta.
Inoltre, diversamente dalle Costituzioni del passato, essa è rigida e garantita:
in quanto atto supremo, infatti, può essere modificata dal parlamento soltanto
con un procedimento aggravato e un organo appositamente istituito (
Nata dal compromesso tra le forze cattoliche, marxiste,
liberali, la carta costituzionale consacra uno stato sociale di diritto e
contiene un ricco catalogo di diritti dell’uomo e delle formazioni sociali,
aspetto quest’ultimo che vale certamente a differenziarla dalle Costituzioni
liberali ottocentesche.
Il documento si apre con dodici disposizioni (“Principi
fondamentali”), cui seguono due parti: la prima riguarda “I diritti e doveri
dei cittadini”; la seconda disciplina “L’ordinamento della Repubblica”. Chiude
il testo costituzionale un corpo di disposizioni (Disposizioni transitorie e finali),
le quali contengono previsioni a suo tempo inserite per agevolare il passaggio
dal precedente al nuovo ordinamento. Tra queste,
I “Principi fondamentali” consacrano i valori fondanti
dello stato italiano in quanto stato democratico, il quale riconosce e promuove
i diritti fondamentali della persona umana, l’eguaglianza dei cittadini, il
pluralismo nelle sue diverse manifestazioni (religiose, politiche, sociali,
linguistiche, culturali), il diritto al lavoro, l’unità ed indivisibilità della
Repubblica, così come il decentramento amministrativo e territoriale, il
ripudio della guerra, l’adesione ad organizzazioni internazionali finalizzate
ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni.
La scelta di collocare il tema dei diritti e dei doveri
nella prima parte del testo costituzionale è stata determinata dalla volontà di
accogliere la tradizionale impostazione giusnaturalistica, secondo la quale i
diritti spettano alla persona umana in quanto tale e non per concessione da
parte dello stato, il quale deve, invece, adoperarsi per il loro riconoscimento
e la loro garanzia. In tale ottica, i diritti e la loro regolamentazione sono
stati anteposti, nella stesura della carta costituzionale, alla disciplina
della organizzazione costituzionale dello stato.
La seconda parte della Costituzione ha ad oggetto
l’organizzazione e le attribuzioni degli organi costituzionali (parlamento,
governo, presidente della repubblica, Corte costituzionale), i principi e le
garanzie in tema di funzionamento della magistratura, l’ordinamento regionale
(distribuzione delle competenze e rapporti tra Stato, regioni ed enti locali).
Accanto alle maggiori innovazioni costituite dalla disciplina
di un ricco catalogo di diritti fondamentali, dalla istituzione della Corte
costituzionale e dalla previsione del decentramento regionale, si collocava –
in linea di continuità col passato liberale e tolta la parentesi fascista – la
scelta del costituente di recepire la consuetudine costituzionale che aveva
prodotto l’affermazione del modello parlamentare. La introduzione della forma
di governo parlamentare veniva tuttavia razionalizzata con la disciplina del
meccanismo della fiducia e della sfiducia (art. 94 Cost.); il parlamento
manteneva la struttura bicamerale: entrambe le camere sarebbero state elettive
e dotate delle medesime funzioni sia con riguardo allo svolgimento della
funzione legislativa che nei rapporti col governo (c.d. bicameralismo perfetto);
nella composizione del governo, prevaleva la scelta di valorizzare la
collegialità del consiglio dei ministri piuttosto che quella di rafforzare la
posizione del presidente del gabinetto ministeriale; al presidente della
repubblica, organo di garanzia costituzionale e politicamente irresponsabile,
veniva affidato il ruolo di capo dello stato e rappresentante dell’unità
nazionale, con l’attribuzione di competenze che intrecciavano i diversi poteri
dello stato[12].
In continuità con la prassi statutaria, il mantenimento
del sistema elettorale proporzionale – non previsto in Costituzione, ma
disciplinato con legge ordinaria – e l’assenza di primazia politica del vertice
dell’esecutivo avrebbero contribuito a determinare, almeno fino all’inizio
degli anni ’90 del secolo scorso, l’estrema frammentazione del quadro politico
alla quale sarebbero conseguite la mancanza di maggioranze parlamentari stabili
e capaci di esprimere governi di legislatura, nonché la formazione di litigiosi
governi di coalizione, con frequente ricorso a crisi extraparlamentari e a
scioglimenti anticipati delle camere[13].
Inoltre, sul funzionamento della forma di governo e sui rapporti tra
maggioranza e opposizione pesava il mantenimento fino al 1971 – data della
approvazione dei nuovi regolamenti parlamentari – del regolamento della camera
dei deputati dell’epoca prefascista (1920-22) che era stato ripristinato e
sulla cui base il senato aveva adottato il proprio nel 1948[14].
6. All’indomani della promulgazione della Costituzione e
delle prime elezioni del parlamento repubblicano (aprile 1948), complice anche
la situazione internazionale con il consolidarsi della c.d. guerra fredda, il
contesto politico-istituzionale dello stato italiano registrava la frattura tra
le forze politiche che avevano cooperato alla elaborazione della carta
costituzionale. L’accesa conflittualità tra maggioranza e opposizione si
traduceva nella netta emarginazione delle sinistre da incarichi e
responsabilità di governo; il partito comunista, in particolare, venne
considerato “antisistema” e costretto per diversi anni a svolgere la funzione
di opposizione (c.d. conventio ad
excludendum). Il clima di forte contrapposizione politica e l’immobilismo
nei ruoli di governo e opposizione (c.d. democrazia bloccata) certamente non
favorirono, nel primo periodo della vita repubblicana (1948-1956), l’attuazione
della Costituzione.
Il “congelamento” della Costituzionale si attenuava
lentamente nelle legislature successive, con l’istituzione della Corte
costituzionale (1956), del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro
(1957) e del Consiglio superiore della magistratura (1958), mentre prendeva
avvio la costruzione del mercato unico europeo con il contributo fondamentale
dell’Italia (1957). Una fase ulteriore veniva inaugurata negli anni ’70 con
l’attuazione dell’ordinamento regionale (1968-1970), la disciplina
dell’istituto del referendum (1970), l’adozione dei nuovi regolamenti
parlamentari (1971) e dello statuto dei diritti dei lavoratori (1970).
La debolezza delle coalizioni governative e il metodo consociativo
caratterizzarono la dinamica dei rapporti tra maggioranza e opposizione nella
prassi repubblicana degli anni ’70, finché nel decennio successivo vennero
assunti interventi diretti alla razionalizzazione della forma di governo e al
rafforzamento della istituzione governativa. In particolare, le riforme dei
regolamenti parlamentari introducevano il controllo parlamentare di costituzionalità
sui decreti legge (1981) e la regola del voto palese per l’adozione delle delibere
(1988), mentre apposite leggi vennero approvate per la disciplina del governo
(1988), delle autonomie locali e del procedimento amministrativo (1990).
L’XI legislatura (1992-1994) fu contrassegnata da una
concatenazione di eventi che impressero una svolta nel funzionamento della
forma di governo italiana tanto da indurre alcuni commentatori a parlare di un
passaggio dalla “prima” ala “seconda” repubblica. Le elezioni politiche del
1992, le inchieste giudiziarie seguite allo scandalo di “Tangentopoli”,
l’emergenza economica, il referendum abrogativo e la successiva modifica del
sistema elettorale da proporzionale a prevalentemente maggioritario (1993)
concorrevano alla implosione dell’assetto partitico e alla progressiva
affermazione di una logica bipolare nella competizione politica. Questa logica
si sarebbe mantenuta – a Costituzione invariata – anche con la ulteriore
riforma, nuovamente in senso proporzionale ma con correttivi, della legge
elettorale per la camera dei deputati e il senato (2005).
Nella ormai lunga storia dell’Italia repubblicana,
numerose sono state le revisioni della carta costituzionale apportate secondo
il procedimento aggravato disciplinato dall’art. 138 Cost. Tali riforme non
hanno comunque mai alterato le linee essenziali e i valori fondamentali sul
quale è costruito l’impianto costituzionale. Accanto agli emendamenti che hanno
interessato diverse disposizioni costituzionali e alle ampie revisioni realizzate
tra il 1999 e il
Il dibattito sulle riforme istituzionali si concretizzava
già negli anni ’80 con la istituzione di una commissione parlamentare
bicamerale, incaricata di studiare proposte di riforma da sottoporre alle
assemblee (c.d. commissione Bozzi, 1983). La commissione, la cui relazione
conclusiva non venne mai discussa, suggeriva di mantenere la forma di governo
parlamentare, rafforzando gli istituti di democrazia diretta e i poteri del
presidente del consiglio e differenziando le attribuzioni delle camere.
Dopo molti anni di attesa, vennero istituite altre due
commissioni bicamerali che, in deroga al meccanismo previsto per la revisione
costituzionale, avrebbero dovuto proporre al parlamento un progetto organico di
riforma della parte seconda della Costituzione, da sottoporre obbligatoriamente
a referendum confermativo del corpo elettorale. La prima di queste commissioni
(c.d. commissione De Mita-Iotti, 1992), che avrebbe cessato i lavori per
scioglimento anticipato delle camere, elaborava un progetto di riforma, il
quale prevedeva una modifica dei rapporti tra stato e regioni e un
potenziamento delle autonomie regionali, oltre alla individuazione, tramite il
procedimento elettorale, del capo del governo anche in connessione con la
modifica del sistema elettorale in senso maggioritario. La seconda commissione
(c.d. commissione D’Alema, 1997), la cui relazione conclusiva non riuscì a
superare lo scoglio del dibattito parlamentare, proponeva l’introduzione di una
forma di governo semipresidenziale, la riforma federale dello stato, la
differenziazione della composizione e delle funzioni delle due camere, la
modifica del Consiglio superiore della magistratura, della Corte
costituzionale, della pubblica amministrazione e della giustizia
amministrativa.
I progetti di queste commissioni parlamentari, sebbene
non siano riusciti a produrre le riforme suggerite, hanno continuato negli anni
successivi ad alimentare il dibattito sulla riforma delle istituzioni, più di
recente sfociato, oltre che nelle modifiche all’ordinamento regionale cui si è
accennato, nel progetto di legge costituzionale (“Modifiche alla Parte II della
Costituzione”) approvato dalle camere durante
Il tema della riforma della parte seconda della
Costituzione proseguiva nella legislatura successiva con la predisposizione, da
parte della commissione affari costituzionali della camera dei deputati, di un
progetto che riuniva in un unico testo numerose proposte di revisione
costituzionale (c.d. bozza Violante, 2007); su questo testo la commissione
avrebbe dovuto riferire al parlamento ma la fine anticipata della legislatura,
ancora una volta, ne interrompeva l’esame.
In conclusione, la storia costituzionale italiana
testimonia il mantenimento della identità dello stato: nonostante i mutamenti
costituzionali, talora formali (dallo Statuto alla Costituzione) ma più spesso
sostanziali, abbiano inciso anche in maniera significativa sul funzionamento
della forma di stato e di governo, non vi è mai stata soluzione di continuità
nei diversi passaggi e nelle varie fasi che l’ordinamento giuridico statale ha
attraversato, sempre nel rispetto – come si accennava in apertura – delle
regole esistenti e delle procedure costituite.
E’ evidente, invece, che qualora un mutamento dovesse
realizzarsi in violazione di tali regole, e dunque al di fuori e magari in
dispregio del dettato costituzionale, si potrebbe ragionare di una rottura
della continuità dell’ordinamento. E’ quanto potrebbe accadere, ad esempio, nel
caso in cui le richieste autonomistiche strenuamente difese da oltre un
ventennio dalla Lega Nord dovessero pervenire alla – invocata e periodicamente
rilanciata – indipendenza del centro-nord (c.d. Padania) dal resto dell’Italia.
In questa ipotesi, però, la secessione troverebbe eventualmente realizzazione
in via di fatto e non di diritto, stante la solenne proclamazione
costituzionale del principio di unità e indivisibilità della repubblica (art. 5
Cost.), e allora non soltanto verrebbe meno la continuità dello stato e
dell’ordinamento, ma cesserebbe anche di esistere la nazione italiana come
identità culturale collettiva.
* Professore ordinario di
Diritto costituzionale nella Università di Siena (Italia).
[1] E’ questo l’orientamento prevalente tra
i giuspubblicisti italiani. Per tutti, v.: S. Romano, I caratteri giuridici della formazione del regno d’Italia (1912),
ora in Scritti minori, I, Milano,
1990 e V. Crisafulli, Stato, popolo,
governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985; più
recentemente, v.: S. Cassese, Lo stato
fascista, Bologna, 2010, spec. p. 47 ss; Idem, «Fare l’Italia per costituirla poi». Le continuità dello stato, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n.
2, 2011, p. 305 ss.; G. de
Vergottini, L’evoluzione del sistema
politico istituzionale, in Rassegna
parlamentare, n. 3, 2011, p. 551 ss. Di contrario avviso è, invece, U.
Allegretti, Centocinquant’anni di storia
costituzionale italiana, Relazione al Convegno della Associazione italiana
dei costituzionalisti, Torino, ottobre 2011 (http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/sites/default/files/bandigare/Relazione%20Allegretti.pdf),
che parla di cesure profonde tra le diverse epoche dello stato liberale, del
regime fascista e della repubblica democratica, al punto che “le loro
continuità sono secondarie rispetto alle discontinuità”. Nel dibattito
storiografico, v. C. Ghisalberti, Storia
costituzionale d’Italia. 1848-1994, Bari, 2002; R. Martucci, Storia costituzionale italiana. Dallo
Statuto albertino alla Costituzione (1848-2001), Roma, 2005; C. Pavone, Alle origini della Repubblica, Torino,
1995, passim e spec. p. 116 (“…
[2] Come osserva A. Pace, Potere costituente, rigidità costituzionale,
autovincoli legislativi, Padova, 2002, p. 13 ss., se inizialmente
prevaleva, tra gli studiosi e i politici, la tesi della non modificabilità
dello Statuto nelle vie ordinarie, in seguito questo finì per essere
considerato flessibile, sia giuridicamente che nella pubblica opinione. Tale
esito fu reso possibile dalla combinazione di due fattori: la natura elastica
delle norme statutarie che contenevano frequenti rinvii alla legge e
l’introduzione, favorita dal contesto politico-culturale, di una norma
consuetudinaria che consentiva la modifica dello statuto ad opera di leggi
ordinarie. Sulla genesi, i contenuti, il declino dello Statuto albertino, v. G.
Rebuffa, Lo Statuto albertino, Bologna,
2003.
[3] Sul punto, v. M. Fioravanti, Per una storia della legge fondamentale in
Italia: dallo Statuto alla Costituzione, in M. Fioravanti (a cura di), Il valore della Costituzione, Bari,
2009, p. 5 ss.
[4] Sulla conservazione dello Statuto
albertino dopo l’unificazione e sulla continuità dell’ordinamento del Regno
sabaudo, v. A. Pensovecchio Li Bassi, Il
biennio dell’unificazione italiana e lo Statuto albertino, in Scritti in memoria di Livio Paladin,
vol. III, Napoli, 2004, p. 1606. Si veda, inoltre: R. Martucci, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II e il
governo del Re, in Diritto pubblico
comparato ed europeo, n. 3, 2011, p. 1070 ss.
[5] Soltanto con la legge Zanardelli del
1901 sarebbe stata prevista la figura del presidente del consiglio e ne
sarebbero stati disciplinati i poteri.
[6] Tra il 1861 e il 1922 si ebbero
ventisei presidenti del consiglio e sessanta gabinetti ministeriali.
[7] La definizione di “governo
pseudo-parlamentare” è fatta risalire a Giuseppe Maranini, mentre di “governo a
tendenza assembleare” con riguardo sia all’esperienza dello stato
monarchico-liberale che a quella dello stato democratico-repubblicano, parla A.
Barbera, Fra governo parlamentare e
governo assembleare: dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana, in
Quaderni costituzionali, n. 1, 2011,
spec. p. 22 ss. Sull’allontanamento
dalle previsioni costituzionali relative alla forma di governo come elemento di
continuità tra la prassi statuaria e quella repubblicana, v. G. Di Cosimo, Sulla continuità fra Statuto e Costituzione,
in Rivista Associazione italiana dei
costituzionalisti, n. 1, 2011
(http://rivistaaic.it/articolorivista/sulla-continuit%C3%A0-fra-statuto-e-costituzione).
[8] Si interroga sulla continuità o
rottura tra fascismo e ordinamento statutario, L. Carlassare, La ‘rivoluzione’ fascista e l’ordinamento
statutario, in Diritto pubblico, 1996,
p. 43 ss.
[9] Sulla continuità formale tra
stato fascista e stato repubblicano, con particolare riguardo al valore della
Costituzione provvisoria, v. G.U. Rescigno, La
discussione nella Assemblea costituente del 1946 intorno ai suoi poteri, ovvero
del potere costituente, delle assemblee costituenti, dei processi costituenti, in
Diritto pubblico, 1996, p. 1 ss. V.
anche V. Onida, L’ordinamento
costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all’avvento della
Costituzione repubblicana, Torino, 1991.
[10] Sugli elementi di continuità
della Costituzione col passato, e non soltanto con quello dell’Italia liberale
ma anche col passato dell’Italia fascista, v. G. Bognetti,
[11] Sul punto, v. S. Bartole, Il tempo e i tempi della Costituzione,
in Scritti in onore di Franco Modugno, Napoli,
2011, spec. p. 233 ss.
[12] Per tali aspetti, v. S.
Merlini, Continuità, razionalizzazioni e
correzioni della forma di Governo italiana nel suo percorso storico dallo
Statuto alla Costituzione repubblicana, in P. Caretti, M.C. Grisolia (a
cura di), Lo stato costituzionale. La
dimensione nazionale e la prospettiva internazionale. Scritti in onore di Enzo
Cheli, Bologna, 2010, p. 67 ss.
[13] Sulla evoluzione della forma di
governo italiana, anche in rapporto all’epoca statutaria, v. M. Perini, Le regole del potere: primato del parlamento
o del governo?, Torino, 2009.
[14] Di “continuità nella sperimentazione”, con riguardo alla evoluzione delle assemblee parlamentari e degli istituti del diritto parlamentare, dall’epoca liberale a quella repubblicana parla R. Dickmann, Profili di “continuità” costituzionale nell’esperienza parlamentare italiana, in Federalismi.it, n. 21/2011.